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Migranti e Depressione post-partum

Migranti e Depressione post-partum

In tutto il mondo, in ogni nazione e paese, le persone soffrono di depressione post-partum (DPP). Anche se è possibile che in alcune regioni del mondo l'incidenza sia più bassa o più alta, gli studi indicano ampiamente che in media il 15% delle madri e il 10% dei padri si trovano ad affrontare questa condizione (Halbreich & Karkun, 2006; Paulson & Bazemore, 2010). Non sappiamo esattamente quali siano le cause della depressione, ma sappiamo che esistono alcuni fattori di rischio; due dei fattori chiave sono il limitato supporto sociale e condizioni di stress nel recente passato (Ghaedrahmati & al., 2017; O'Hara & Swain, 1996). Ciò rende naturalmente i migranti uno dei gruppi più vulnerabili, e la ricerca lo dimostra. A seconda dello studio che si legge, la prevalenza del disturbo da stress post-traumatico tra i migranti e i rifugiati varia dal 20% al 42% (Collins et al., 2011; Falah-Hassani et al., 2015). Considerando che gli immigrati costituiscono un quarto della popolazione svizzera, si tratta di un problema enorme che va e deve essere affrontato.

 

L'immigrazione come fattore di rischio per la depressione

Il momento in cui una persona diventa genitore è una situazione nuova e potenzialmente stressante. È anche il momento in cui abbiamo bisogno di sostegno, forse il più importante della nostra vita: dopo tutto, si dice che per "crescere un bambino ci voglia un villaggio". Abbiamo bisogno non solo di sostegno pratico (ad esempio, nella condivisione dei compiti nella cura dei figli), ma anche di un sostegno emotivo (senso di connessione e appartenenza) e informativo (orientamento e disponibilità di informazioni utili). In questo contesto, i genitori migranti possono sperimentare l'isolamento e la solitudine, poiché la loro rete di sostegno spesso rimane nel Paese d'origine (Tobin et al., 2018). La lontananza degli affetti è poi diventata ancora più difficile negli ultimi anni a causa delle restrizioni ai viaggi legate alla pandemia COVID-19 e alle situazioni politiche instabili di alcune regioni.

In secondo luogo, la migrazione di per sé è descritta come un processo di adattamento estremamente stressante. Nel periodo dopo il parto, lo sforzo di adattamento è ancora maggiore, poiché i genitori immigrati attraversano contemporaneamente entrambe le transizioni: quella da "donna/uomo" a "madre/padre" e quella da "locale" a "immigrato" (Barclay e Kent, 1998). In altre parole, il livello di stress a cui sono sottoposti è potenzialmente maggiore, soprattutto se vivono in un nuovo Paese da meno di due anni (Ganann et al., 2016).

L'adattamento alla vita in un nuovo Paese può essere complesso su molti livelli: barriere linguistiche, adattamento a nuovi sistemi di valori e stili di vita, status di minoranza ed emarginazione, mancanza di conoscenza dei sistemi sanitari, legali e amministrativi (O'Mahony et al., 2013). Lo stress e la preoccupazione possono essere ulteriormente aggravati da un permesso di soggiorno in sospeso o incerto (Tobin et al., 2018).

Va inoltre ricordato che in molti casi la depressione inizia già durante la gravidanza e, anche in questo caso, le donne migranti soffrono più spesso di depressione prenatale rispetto alle autoctone. Uno studio condotto a Ginevra su 228 donne migranti nel loro terzo trimestre di gravidanza ha mostrato che il 37% di loro ha ottenuto un risultato sulla Edinburgh Postpartum Depression Scale (EPDS) che potrebbe suggerire una depressione (Ratcliff et al., 2015). Tenendo presente che la depressione prenatale non trattata può provocare complicazioni ostetriche, oltre a essere un altro fattore di rischio per la DPP, dovremmo prendere in considerazione la possibilità di sottoporre a screening le donne migranti per individuare i sintomi della depressione già durante la gravidanza e agire il più precocemente possibile.

Non possiamo poi dimenticare i rifugiati, che sono un gruppo particolarmente vulnerabile tra i migranti. Dobbiamo infatti considerare la miriade di fattori di stress che devono affrontare: (1) stanno diventando genitori, (2) devono adattarsi a un nuovo Paese e sperimentare un sostegno molto inferiore a quello che probabilmente avrebbero a "casa", (3) inoltre devono affrontare lo stress legato alle esperienze precedenti. Eventi traumatici, condizioni difficili durante il viaggio verso il nuovo Paese, l'attesa dello status di richiedente asilo e la consapevolezza che la situazione economica e politica nel Paese d'origine è ancora instabile o rappresenta una minaccia per altri membri delle loro famiglie/amici: tutto questo porta a un accumulo di stress (Bogic et al., 2015).

 

Ostacoli alla ricerca di aiuto

Come visto, gli immigrati hanno un maggior rischio di sviluppare malattie mentali perinatali. Allo stesso tempo, però, sappiamo che cercano aiuto meno di frequente (Lindert et al., 2008). Si tratta di una grande sfida, dato che in questo gruppo i sintomi della DPP sono notoriamente sottostimati (O'Mahony & Donnelly, 2013).

Allora perché gli immigrati sono meno propensi a chiedere aiuto? Dobbiamo considerare due aspetti: le barriere strutturali e le convinzioni personali. Le barriere strutturali includono questioni come la mancata conoscenza del funzionamento del sistema sanitario (non sapere dove trovare uno specialista, che tipo di trattamento è possibile, quanto costano le visite, ecc.), le barriere linguistiche (particolarmente importanti per le terapie regolari), le difficoltà nella cura dei figli (i genitori possono avere problemi a trovare qualcuno che si prenda cura dell'altro o degli altri figli durante gli appuntamenti sanitari) o le limitate risorse finanziarie (O'Mahony et al., 2013).

Le barriere legate alle convinzioni personali sono più complesse e si basano sui valori, sulle norme culturali e sul background dei genitori. Dobbiamo anche considerare che in alcune culture lo stigma derivante dai problemi di salute mentale è più marcato. I genitori possono credere che se chiedono aiuto provocheranno vergogna alla loro famiglia e a tutta la comunità (Kirmayer et al., 2011). Alcuni migranti inoltre non comprendono il concetto di DPP o potrebbero non avere nemmeno una parola per definirlo nella loro lingua (Tobin et al., 2018). Altri temono di perdere i propri figli davanti alle autorità. Alcuni credono che gli specialisti non vogliano accettare gli immigrati come nuovi pazienti (Edge & MacKian, 2010). Un'altra convinzione errata di alcuni immigrati è che avranno meno possibilità di cambiare status o di migrare se hanno una diagnosi relativa alla propria salute mentale. Tutte queste convinzioni possono indurre a nascondere i propri sintomi fino a quando non si aggravano a tal punto da diventare insopportabili - e questo è in grande contraddizione con la consapevolezza che una diagnosi precoce sia fondamentale per facilitare il percorso di cura.

Sono una/un migrante affetto da DPP - dove posso trovare aiuto?

Se siete migranti e pensate di soffrire di Depressione Post Partum (DPP), qui potete trovare alcuni consigli su cosa fare per ricevere aiuto:

  • Sul nostro sito web è possibile trovare l'Edinburgh Postpartum Depression Scale (EPDS) in diverse lingue. Verificate se è disponibile nella vostra lingua madre e rispondete alle domande. Non può sostituire una diagnosi professionale, ma è un ottimo primo passo.
  • Rivolgersi a un professionista specializzato. Dapprima potete cercare uno specialista che parli la vostra lingua madre, ma non arrendetevi se non lo trovate. Potete consultare il nostro elenco dei professionisti per verificare le diverse lingue parlate dagli specialisti. Se siete in grado di comunicare in un'altra lingua (il che non significa necessariamente che la parliate "fluentemente" o "perfettamente") cercate di trovare uno specialista che la parli. Se vi viene diagnosticata una depressione, la vostra assicurazione di base coprirà la maggior parte dei costi associati alle visite mediche e al trattamento (farmaci, ecc.).
  • Sappiate che in Svizzera vi sono cliniche specializzate nel trattamento della depressione, dove talvolta è anche possibile soggiornare con vostro figlio. Per saperne di più, potete consultare il nostro elenco qui
  • Nella nostra organizzazione ci sono molte persone che parlano diverse lingue. Scriveteci o chiamateci (e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - tel. 091 220 59 78), cercheremo di trovare un contatto adatto per uno scambio personalizzato. 
  • Un altro luogo in cui potete cercare aiuto è il Mütter und Väterberatung (in tedesco e francese). Questa organizzazione fornisce assistenza gratuita e informazioni utili sulla cura dei bambini. 
  • Parlatene con la vostra levatrice. Spesso è un'ottima fonte di informazioni e vi aiuterà a trovare aiuto nella vostra zona.
  • Trovate un gruppo di sostegno. Noi ad esempio offriamo un gruppo di sostegno in Inglese, via Zoom. Se non è disponibile nel luogo in cui vivete, cercate dei gruppi online nel vostro Paese d'origine. Sentire di non essere soli con il problema è una parte fondamentale della guarigione.

Autrice: Agata Siluszyk, membro attivo di Depressione Post Partum Svizzera

 

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